Torno finalmente a casa dopo cinque mesi negli ospedali di Roma. Rientro in carrozzina, la testa coperta da un turbante per nascondere le cicatrici lasciate dall’intervento e dalla craniectomia. Ad accogliermi c’è Marisol, una sorridente infermiera peruviana consigliata da amici cari, incaricata di occuparsi di me durante la convalescenza domestica. La povera Marisol si ritrova ben presto a lavorare anche otto ore al giorno: la sera si fa sempre tardi e la sua presenza, discreta e amichevole, diventa presto parte della mia nuova routine. Per la prima volta, ho un’altra donna in casa e non posso negare che sia stato difficile abituarmi a questa nuova quotidianità.
Durante i mesi di ricovero, il mio armadio era stato messo a soqquadro da mille mani diverse, e questo mi faceva sentire un’estranea non solo nel mio corpo “riarrangiato” ma anche nella mia stessa casa. Dopo la lunga degenza con il catetere fisso, avevo perso anche il controllo degli sfinteri: un’umiliazione difficile da accettare, soprattutto alla soglia dei cinquant’anni e affidata a una badante quasi mia coetanea. Non avevo alternative: ho attivato il CAD (Centro di Assistenza Domiciliare).
Veniva una volta a settimana un fisioterapista, piuttosto severo, che mi forzava a esercitare il lato sinistro paralizzato. L’avevo soprannominato “Pennellone”, sia per l’altezza che per i modi decisi; spesso mi sgridava se non eseguivo gli esercizi come voleva lui. Con la logopedista andava meglio: era più solare e divertente, mi chiedeva di fare esercizi facciali e di leggere ad alta voce per imparare nuovamente a parlare, oltre che a camminare. Con pazienza e forza di volontà, riuscivo a fare piccoli progressi.
Sul fronte familiare, invece, la situazione era più complicata. Mio figlio non era più un bebè: correva per casa come un fulmine e io facevo fatica anche solo a seguirlo con lo sguardo. Mio marito si occupava di lui per i pasti e la notte; io avevo perso il mio ruolo di mamma, non ero più indispensabile, ma ero viva e presente, e questo – viste le circostanze – era già un miracolo. Ho dovuto accettare la situazione, ma la mia autostima ha vacillato e la depressione ha iniziato a farsi sentire. Ho quindi ripreso le sedute con la mia psicoterapeuta.
Poi qualcosa è cambiato: il fisioterapista ci suggerisce l’Adelphi, un centro di riabilitazione diurno nato dall’iniziativa di un avvocato romano alla ricerca di cure all’avanguardia per il figlio colpito da ictus, che, dopo l’esperienza in Francia, decise di fondare un centro in cui la fisioterapia in acqua calda si integrava con attività artistiche come disegno, poesia e teatro. Dopo un po’ di trafila burocratica vengo accolta e finalmente inizio il mio percorso lì.
Ogni giorno, mio marito caricava in macchina nostro figlio, me e Marisol, affrontava il traffico e ci accompagnava: prima Emanuele all’asilo nido steineriano, poi me al centro sulla Trionfale, infine riportava Marisol a casa, per poi tornare al suo lavoro di fotografo, reinventandosi ogni giorno.
Una mamma da zero like
Il rapporto con mio figlio non migliorava. In casa cercavo di giocare con lui, ma dovevo tirarmi indietro: con il cranio ancora vulnerabile, temevo un suo gesto involontario. Ovviamente lui percepiva la mia paura e reagiva spesso con rabbia o pianto; altre volte fuggiva letteralmente da me. Per creare un ponte tra di noi, ho iniziato a entrare in contatto con lui attraverso il cellulare: ormai era più bravo di me, come tutti i bambini di oggi.
Siamo arrivati così a gennaio del 2025. Gli episodi di rabbia di mio figlio diventavano sempre più frequenti e intensi, tanto da non voler più rimanere sola con lui nemmeno per mezz’ora. Un giorno è arrivato a trascinare la mia carrozzina per “mettermi in prigione” in un angolo della casa, finché lo avesse deciso lui. Ha preso a pugni la carrozzina, tra pianti e scenate. Una sera, mi guarda e mi dice con tono di sfida: “Tu sei una mamma da zero like”. Mi si spezza il cuore. Tenevo dentro le lacrime mentre tutto mi sfuggiva di mano. Soprattutto perché, lontano dallo sguardo del papà, mi colpiva sulle gambe o sul braccio sinistro paralizzato.
Ho iniziato a cercare un terapeuta perché sentivo che il suo disagio – dopo la nostra lunga e brusca separazione a causa del mio ricovero – aveva bisogno di essere ascoltato. Abbiamo trovato un centro specializzato che offre sostegno alle famiglie e iniziato insieme il percorso, raccontando al terapeuta la nostra storia.
Alla prima seduta tutto scorre liscio, anche grazie al gioco. All’inizio di maggio, il terapeuta ci spiega che la sua esuberanza viene frenata in casa dalla mia fragilità, e mi suggerisce di provare a stare con lui mettendo da parte le mie paure. Così, nel weekend, inizio a giocare secondo le sue regole: faccio anche un po’ la pagliaccia per assecondare le sue richieste di giochi di ruolo. Una domenica, lui interpreta “Capitan Nera”, una supereroina malvagia che deve “ammazzarmi” per gioco. Dopo la terza “uccisione”, scoppio a ridere e mi concedo una pausa pipì, che ormai considero una conquista. Torno e riprendiamo il gioco, tra risate e finte resurrezioni, per altre due ore.
Una mamma regina
Arriva così l’11 maggio, Festa della Mamma. Sono sveglia da ore, i dolori non mi lasciano dormire. Nel silenzio della notte, sento mio figlio chiamarmi: “Mamma, sei sveglia? Mi chiami papà?”. Nel dormiveglia rispondo che papà sta dormendo, ma lui salta nel letto del padre e insiste: “No mamma, chiama papà col campanello!”. Ormai la notte è finita: lo vedo disteso accanto a me e, un po’ timorosa, gli dico che può venire nel mio letto. Contro ogni aspettativa, si butta accanto a me e si sistema comodo.
Dopo un po’, sento il campanello: mio marito, ormai sveglio, entra in camera e con dolcezza invita nostro figlio a fare colazione. Lui salta giù dal letto e sparisce, per poi tornare subito dopo nascosto dietro il papà. “Dai, adesso puoi darglielo…”, dice mio marito. Mio figlio si avvicina e mi porge un foglietto. Nel buio non vedo nulla, ma capisco che è un regalo per me. Arriva anche la mia assistente mattutina, solare come sempre, con un mazzo di fiori e gli auguri “Tanti auguri, amore!” – come mi chiama fin dal primo giorno.
Quando finalmente si accende la luce, vedo meglio: mio figlio mi ha donato una corona di carta ricavata da una pagina del suo giornalino preferito, con una vignetta che invita a costruire una corona per la mamma. Una piccola grande sorpresa: mio marito mi racconta che da una settimana nostro figlio chiedeva ogni giorno quando sarebbe arrivata la Festa della Mamma.
Commossa, gli dico: “Amore, grazie! Questa è la Festa della Mamma migliore di sempre”. La mattinata è proseguita con una colazione speciale, preparata dal papà: pancake riscaldati e farciti con la gelatina di cotogne fatta dalla nonna, una vera delizia.
Per la prima volta mi sono sentita davvero festeggiata. Mi sento miracolosamente passata da “mamma da zero like” a regina e questo grazie al lavoro del terapeuta, ma anche al mio impegno per cambiare atteggiamento, essere più gioiosa e meno timorosa. In fondo, mi sono detta, peggio di così non può andare: se serve, schivo i colpi, ma almeno sto con mio figlio.
Una vera gioia, un miracolo per me.